Futurismo e cinema
Si da generalmente per scontato che il cinema sia il mezzo di espressione artistica più autenticamente moderno e come tale sia stato adottato e celebrato dalle avanguardie dei primi anni del Novecento. In realtà solo con la fine della prima guerra mondiale alcuni rappresentanti di movimenti delle avanguardie artistiche europee, come Fernand Léger o Salvador Dalì provenienti dalle esperienze del surrealismo e del cubismo, si interessarono alle potenzialità espressive del cinema. I primi tentativi di realizzare film interamente astratti risalgono agli anni venti – basti pensare ai capolavori di Viking Eggeling, Hans Richter, Walter Rutmann, Djiga Vertov, René Clair ed altri - e sono comunque di molto posteriori alla teorizzazione e alla sperimentazione dell’astrattismo da parte di artisti come Kandinskij, Mondrian, Balla o Malevich.
Nel caso del futurismo si può dire che, a parte episodici entusiasmi e una curiosità di facciata per alcune opere concepite per il grande schermo, il cinema restò sostanzialmente fuori dalla sfera dell’effettiva pratica artistica dei principali personaggi riuniti intorno a Filippo Tommaso Marinetti, fondatore e capofila del movimento futurista. Un rapporto ambivalente nei confronti del cinema caratterizzò molti degli autori formatisi in seno al futurismo, anche quando, con molto ritardo rispetto ad altri paesi, solo negli anni trenta e in un contesto intellettuale e ideologico ormai completamente diverso, il cinema italiano sembrò disposto ad accogliere in parte alcune suggestioni delle avanguardie artistiche dell’anteguerra.
In questo saggio ci proponiamo di capire le ragioni della diffidenza della prima generazione di futuristi, quella degli anni ’10, nei confronti del cinema e perché i pochi tentativi di creare una cinematografia futurista ebbero risultati mediocri quando non furono dei totali fallimenti.
Al futurismo si è spesso criticata l’ipertrofia della teoria rispetto alla prassi e l’incongruenza di molte delle realizzazioni artistiche dei suoi membri rispetto ai manifesti programmatici[1]. Se questo è vero per la maggior parte degli ambiti artistici e letterari in cui si cimentarono i futuristi, per il cinema si trattò di un totale stacco tra dichiarazioni di principio di carattere normativo ed effettiva sperimentazione delle potenzialità del nuovo mezzo di comunicazione. Questo spiega lo scarso interesse da parte degli storici dell’arte verso la cinematografia futurista[2] e il fatto che i pochi che si sono occupati dell’argomento, per lo più studiosi del cinema, abbiano affrontato e commentato gli scritti di alcuni rappresentanti del movimento futurista soprattutto per il loro interesse teorico[3].
Da questo risulta che il rapporto tra cinema e futurismo viene generalmente liquidato accontendandosi di segnalare che il cinema fosse la forma espressiva che meglio si adattava alla visione del mondo e ai principi estetici del futurismo[4]. D’altronde non solo l’idea che la nascita del cinema costituisse una sorta di premonizione dell’avvento dell’Arte totale auspicata dal futurismo, ma che il futurismo stesso non fosse che il tentativo, anche se spesso velleitario e inconcludente, di cinematografizzare tutte le altre arti si ritrova fin dalle origini del movimento futurista, tanto presso i suoi detrattori che presso i suoi più entusiastici paladini. Edward Aiken, nel suo studio consacrato ai rapporti tra cinema e pittura nel futurismo, ha segnalato il gran numero di critici che da Ezra Pound e Wyndham Lewis a Guillaume Apollinaire e Robert Delaunay negli anni dieci sino a Malevich e Huelsenbeck negli anni venti hanno parlato, nel bene e nel male, di un legame quintessenziale tra cinema e futurismo[5].
Questa valutazione fu coltivata, a posteriori, da alcuni dei teorici del futurismo[6] e in particolare da Marinetti, quando si decise di dare alla stampa il manifesto della cinematografia futurista, l’ultimo dei manifesti del primo periodo futurista, l’undici settembre del 1916 sulle pagine della rivista L’Italia futurista, a sette anni di distanza quindi dal primo e più famoso manifesto apparso su Le Figaro il 20 febbraio del 1909[7].
Le suppostamente naturali convergenze tra cinema e futurismo possono essere riassunte in cinque punti, rifacendosi a quanto sostenuto nel primo manifesto della cinematografia futurista e a quanto di solito si ripete a proposito dell’intrinseca modernità del cinema.
1) Ai futuristi si deve il riconoscimento del primato dell’immagine sul testo e dell’autonomia del cinema rispetto alle altre arti. “Il cinematografo è un'arte a se. Il cinematografo non deve dunque mai copiare il palcoscenico. Il cinematografo, essendo essenzialmente visivo, deve compiere anzitutto l'evoluzione della pittura: distaccarsi dalla realtà della fotografia, dal grazioso e dal solenne. Diventare antigrazioso, deformatore, impressionista, sintetico, dinamico, parolibero” recita il manifesto del ‘16. Tuttavia va ricordato a questo proposito che è ai libri che i futuristi affideranno tutte le loro manifestazioni programmatiche e che il paragone del cinema con la pittura finisce col subordinare l’uno all’altra. Per altro, solo un anno prima Marinetti auspicava la vittoria del teatro sul cinema. Nel manifesto sul teatro futurista sintetico del 1915 egli infatti affermava “Con questa brevità essenziale e sintetica, il teatro potrà sostenere e anche vincere la concorrenza col cinematografo”.
2) Scrivono Marinetti, Bruno Corra, Enrico Settimelli, Arnaldo Ginna, Giacomo Balla e Remo Chiti, firmatari del primo manifesto della cinematografia futurista che "a prima vista il cinematografo, nato da pochi anni, può sembrare già futurista, cioé privo di passato e libero di tradizioni”. È importante però leggere il seguito della frase - “in realtà, esso [il cinema], sorgendo come ‘teatro senza parole’, ha ereditate tutte le più tradizionali spazzature del teatro tradizionale” – da cui risulta tutta la diffidenza dei futuristi verso il cinema reale e che ridimensiona i loro entusiasmi per un cinema ancora inesistente e di cui si stila il programma senza però firmarne l’atto di nascita.
3) Il cinema è un’invenzione tecnica, suprema espressione della modernità, che dovrebbe permettere di colmare la separazione tra arte e tecnologia. Marinetti nel 1913 dichiara che “il Futurismo si fonda sul completo rinnovamento della sensibilità umana avvenuto per effetto delle grandi scoperte scientifiche”[8]. In particolare del cinema – ultima invenzione menzionata dopo aver elencato il “telegrafo, il telefono e il grammofono, il treno, la bicicletta, la motocicletta, l'automobile, il transatlantico, il dirigibile, l'aeroplano” - il futurismo apprezza il potenziale di rappresentare la dinamicità e la simultaneità, due termini martellantemente ripetuti in tutti i discorsi futuristi. Del cinema quindi si esalta la Kinesis – il movimento – a scapito del Graphein – il momento illustrativo – e si rimane estasiati dal montaggio parallelo e alternato che allora cominciava appena ad essere utilizzato nei film di Griffith e di Pastrone. Non sorprende quindi di vedere menzionato il cinema alla stregua di un mezzo di trasporto. Già nel Manifesto tecnico della letteratura futurista del 1912 troviamo la seguente osservazione: “Il cinematografo offre la danza di un oggetto che si divide si ricompone senza intervento umano. Ci offre anche lo slancio a ritroso di un nuotatore i cui piedi escono dal mare e rimbalzano violentemente sul trampolino. Ci offre infine la corsa d’un uomo a 200 chilometri all’ora. Sono altrettanti movimenti dell materia, fuori dalle leggi dell’intelligenza quindi di una essenza più significativa”. E nel manifesto sul teatro di varietà del 1913 il cinema viene descritto come un mezzo per dare un “numero incalcolabile di visioni e di spettacoli irrealizzabili”. Va tenuto presente però che l’atteggiamento dei redattori di questi manifesti sembra essere quello dello spettatore incantato dal nuovo spettacolo, quindi fondamentalmente passivo, che non quello del regista o del produttore che lo crea.
4) I futuristi furono certamente affascinati dal cinema innanzitutto per la sua qualità di arte di massa. Pur con evidente disprezzo, Marinetti descrive questo aspetto positivo del cinema ai suoi occhi nel manifesto del ‘16: "L'abitante pusillanime e sedentario di una qualsiasi città di provincia può concedersi l'ebrietà del pericolo seguendo in uno spettacolo di cinematografo, una caccia grossa nel Congo”. Per questo il genere di cinema popolare che più piaceva ai futuristi era quello delle slapsticks e del film d’avventura. Ben noto è l’entusiasmo suscitato dai film di André Deed (Cretinetti) in cui si assiste allo smembramento del corpo dell’attore e dalla personalità schizofrenica messa in scena dal trasformismo vestimentare di Leopoldo Fregoli[9]. Ma ancora una volta conviene non esagerare l’importanza di questi apprezzamenti che sono inferiori e ben più nuancés rispetto alla vera e propria passione per il teatro di varietà e per la danza.
5) Infine il cinema sembra realizzare quell’ambizione per un’arte “poliespressiva” auspicata da Marinetti sulla scia del Gesammtkunstwerk wagneriano. Nel manifesto sul cinema del 1916 si legge infatti che il cinema è "il mezzo di espressione piu adatto alla plurisensibilità di un artista futurista," e che esso realizza "quella poliespressività verso la quale tendono tutte le piu modere ricerche artistiche". In altri termini, nel cinema si incarna l’ideale dell’unità delle arti tanto ricercato da Marinetti al punto di abusare del termine “sintetico” applicandolo indifferentemente a tutti i campi dell’attività creatrice. Questo ha portato ad attribuire ai futuristi qualità profetiche, facendo di loro degli anticipatori del concetto di multimedialità e di trasversalità estetica, per la loro invocazione dell’interferenza di diversi piani sensitivi , del rapporto parola, suono, immagine che il cinema degli anni dieci non era ancora in grado di realizzare pienamente[10].
Tuttavia conviene insistere sul fatto che nonostante le apparenti corrispondenze e affinità tra il neonato cinematografo e il nascente movimento futurista, Marinetti e gli altri firmatari del manifesto del 1916 parlano di un cinema utopico, immaginando soltanto quali dovrebbero essere le sue qualità ideali. Il fondamentale disprezzo dei futuristi verso il cinema reale del loro tempo, ad eccezione dei generi summenzionati, muterà solo con la crescente affermazione del cinema come mezzo di comunicazione di massa e strumento di propaganda durante il ventennio fascista. Non sorprende quindi che Marinetti, alla fine degli anni venti e negli anni trenta, rivendichi al futurismo e al’Italia il primato di avere inteso l’importanza del cinema, come mezzo di espressione artistica. Non solo pubblicherà altri due manifesti sul cinema, Morale fascista del cinematografo nel 1932 e Cinematografia nel 1938, ma, in totale sintonia con la retorica nazionalista del fascismo, nel 1926 sosterrà che “la cinematografia astratta è un’invenzione italiana”[11], portando a prova il film Vita Futurista del 1916 da lui codiretto assieme a Corra, Ginna, Settimelli, Chiti e Balla. Oggi è opinione comune che Marinetti avesse torto: il cinema astratto non fu un’invenzione italiana. Da una parte, Vita Futurista non è un film astratto, dall’altra appare ormai assodato che il primo lungometraggio futurista sia Drama of the futurist cabaret No 13 di Vladimir Kasjanov del 1913 o del 1914 con Natalia Goncharova e Vladimir Mayakovski[12].
Ad esaminare il rapporto dei futuristi con il cinema affidandosi solo ai loro scritti propositivi si rischia dunque di cadere nella trappola in cui sono incappati critici della serietà di Gunther Berghaus e Peter Bondanella quando sostengono che “cinema had been a constant point of reference in Futuristic writings of the 10s”[13] e che “the Futurist penchant for modern technologies, machnies, and the interplay of speed, light, and space, as well as its violent opposition to tradition in the arts, certainly recommended the cinema to the movement as the prototypical modern art form”[14]. Infatti, al di là di puntuali e generici riferimenti al cinema come metafora del mondo moderno, la pratica futurista ci mostra invece che fu il cinema ad essere appiattito sulle altre arti e non il contrario. Per quanto molti autori del cinema sperimentale, del cinema verité, del cinema di animazione riconoscano il loro debito intellettuale nei confronti delle teorie futuriste si tratta di una paternità inventata ex post[15]. Nella realtà, non solo la nostra conoscenza effettiva della cinematografia futurista è fortemente limitata dal fatto che la quasi totalità dei film etichettati come futuristi sono andati persi e non furono visti che da pochissime persone, ma soprattuttto bisogna arrendersi all’evidenza che il cinema non costituì che un aspetto marginale e tutto sommato irrilevante nella produzione artistica dei futuristi.
Occorre a questo punto interrogarsi sulla consistenza del corpus cinematografico futurista, a prescindere quindi dai progetti sognati o abortiti[16]. Gli storici che si sono occupati di cinema futurista divergono tra di loro quanto all’inclusione o meno di determinati film nel catalogo di opere prodotte dal movimento fondato da Marinetti.
Tutti concordano comunque a vedere in Vita Futurista, il film girato nel 1916 da Marinetti e dai firmatari del manifesto della cinematografia futurista di quell’anno – tra cui solo Giacomo Balla oltre a Marinetti rimaneva tra i membri che avevano partecipato al lancio del primo manifesto del movimento prima della guerra -, l’esempio più compiuto di cinema del futurismo ufficiale. Di questo film, della durata di circa 40 minuti, di cui sopravvivono solo sei spezzoni per la durata complessiva di cinque minuti, si conoscono alcune sommarie descrizioni dei vari episodi che lo componevano[17]. In alcune delle scene vi venivano ripresi il sonno di un futurista (in piedi) rispetto a quello di un passatista (sotto le coperte), la contesa tra un piede un martello e un ombrello, l’amore tra Balla e una sedia, la danza di una donna vestita di metallo, Marinetti e Ungari che si prendono a pugni ed altre situazioni di questo tenore. Il film ebbe scarsissima distribuzione, fu visto da poche centinaia di spettatori, e la prima al teatro Niccolini di Firenze si concluse, secondo la testimonianza di uno dei suoi autori Arnaldo Ginna, in uno scontro con il pubblico.
Non v’e’ dubbio che questo film sia da considerare a pieno titolo futurista, non solo perché l’unico a portare la firma del fondatore del movimento, ma anche per il fatto che si conforma a quanto auspicato nel manifesto del 1916. Pur facendo ampio uso di tecniche come la sovraesposizione della pellicola, la sovraimpressione di immagini, lo split screen, adottate poi da altri movimenti della cinematografia d’avanguardia, non è tuttavia un film astratto ma piuttosto un’accozzaglia di gags.
Degli altri due film, ricordati a proposito della cinematografia futurista e spesso confusi come un’unica opera, è lecito domandarsi se sia corretto attribuire loro un carattere d’avanguardia. Si tratta delle opere di Anton Giulio Bragaglia rilasciate lo stesso anno di Vita Futurista, il 1916, dal titolo Il perfido inganno e Thaïs. Entrambi interpretati dall’attrice e ballerina russa Thaïs Galizky furono due film che, contrariamente a Vita Futurista, ebbero invece distribuzione tramite canali commerciali italiani e internazionali. Solo di Thaïs sopravvive una copia, da cui, ad eccezione delle scenografie geometriche di Enrico Prampolini e di alcuni trucchi visivi alla fine, si puo constatare la scarsa qualità tecnica e soprattutto una trama melodrammatica che poco ha in comune con i principi sbandierati dai futuristi. Non v’e’ dubbio che anche l’alto film di Bragaglia condividesse con questa produzione della Novissima Film di Roma una forte influenza simbolista e art nouveau. A giudicare da Thaïs questi due film di Bragaglia hanno un carattere chiaramente melò, nonostante l’ingegnosa proposta di Millicent Marcus e di Lucia Re, che intravedono un intento parodico in un film che solo negli ultimi quattro minuti dei 29 complessivi mostra alcuni elementi vagamente asssimilabili all’estetica futurista[18]. Dalle loro analisi emerge comunque con chiarezza che Thaïs è un film che condivide molti tratti con il gusto del magico, dell’occulto del simbolismo e del decadentismo e che probabilmente era dettato da una velata opposizione a Marinetti. La presenza di riferimenti e a personaggi dannunziani sarebbero quindi da interpretare, secondo Lucia Re, come il ritorno del represso simbolista che sta alla base di tutto il futurismo:
In essence Bragaglia, by reappropriating this D’Annunzian-symbolist archetype in the film, stages a return of the repressed for futurism, a reemergence in the cinema of futurism’s unconscious—its symbolist decadent past. This is a past from which futurism is never truly able to break away, since futurism’s compulsive self-definition depends on its obsessive and endless negation[19].
In ogni caso al momento di girare i due film Bragaglia non era piu membro ufficialmente del movimento da cui era stato allontanato nel 1912.
Tra i film, purtroppo andati perduti a Milano nel 1944 durante un bombardamento alleato, che potrebbero essere inclusi nella categoria di cinema astratto, i quattro cortometraggi brevissimi realizzati tra il 1910 e il 1912 dai fratelli ravennati Arnaldo Ginna e Bruno Corra (il loro vero patronimico era Arnaldo e Bruno Ginanni Corradini, di famiglia nobiliare), ambedue affiliati al futurismo, ma solo a partire dal 1912[20]. Piuttosto che cinema astratto sembra più corretto vederci degli esperimenti di cinema d’animazione tramite applicazione di colori sulla pellicola vergine. A voler definire infatti ogni film d’animazione e di fantasia realizzato negli anni dieci del Novecento come futurista si rischia di includere autori che col futurismo non ebbero mai alcun contatto diretto, come Antonio Rubino e altri pionieri del disegno animato[21].
Un altro corto di ispirazione futurista, Mondo baldoria, fu girato nel 1914 da Aldo Molinari, basato sul manifesto apparso sulla rivista fiorentina Lacerba Il Controdolore dello scrittore Aldo Palazzeschi, all’epoca assai vicino al futurismo. Fu immediatamente condannato da Marinetti che forse si sentì plagiato nel riferimento alla sua opera carnevalesca Re Baldoria, pubblicata in Francia nel 1905[22]. Grande uso di trucchi cinematografici che tanto piacevano ai futuristi sembra aver caratterizzato alcune scene del film di Ivo Illuminati, Il re, le torri, gli alfieri del 1916, oggi perduto[23]. Ma includendo film non riconosciuti all’interno del movimento si finisce col trasformare il termine futurismo in una parola priva di senso che tutto include purché abbia un vago carattere sperimentale e anticonformista[24].
Non più di affinità, come giustamente segnala Brunetta[25], esistono tra l’estetica futurista e i film del pioniere del cinema documentario in Italia, Luca Comerio, e solo un’ipotesi di lavoro la relazione dei film scientifici per le scuole di Omegna con i principi di distruzione della sintassi marinettiani[26]. I film forse piu vicini all’estetica futurista sono stati prodotti in quegli anni in ambiti del tutto estranei al movimento; oltre ai film comici incentrati intorno alle avventure di Ridolini, di Cretinetti, di Maciste, di Fantomas e di Polidor, si ricorda spesso la scena della storia d’amore tra due coppie di scarpette maschili e femminili nel film l’Amor pedestre del 1914 di Marcel Fabre, e forse ancor prima l’anonimo Journée d’une paire de jambes del 1909, come fonte di ispirazione per Marinetti per la sua piéce di teatro sintetico chiamata Le Basi[27]. Ma anche in questo caso abbiamo una conferma della predilezione per il teatro a scapito del cinema.
Insomma, nonostante le superficiali convergenze tra futurismo e cinema, resta calzante la definizione di Lucia Re dell’atteggiamento futurista nei confronti del cinema come quello di una “cinematografia senza film”. I futuristi si servirono del cinema come metafora della modernità ma non oltrepassarono il confine di un discorso puramente teorico sull’essenza del cinema, restando al livello di quanto Welle chiama ‘film on paper”, ovvero alla scrittura sul cinema.
A questo punto è possibile ritornare alla domanda da cui prende spunto questa ricerca: quali motivi possono essere addotti per spiegare la sostanziale assenza di un cinema futurista? Vorrei in questa sede occuparmi di due ordini di spiegazioni possibili, la prima di carattere circostanziale e contestuale, la seconda legata all’intrinseca natura del medium cinematografico.
Nonostante la questione delle scarse testimonianze a proposito di un’attività cinematografica specificamente futurista non sia stata oggetto di uno studio approfondito e complessivo, alcuni autori hanno notato che i firmatari dei primi manifesti del movimento appartengono prevalentemente alle arti plastiche e alla letteratura. La scarsa dimestichezza con un mezzo espressivo che richiedeva competenze tecniche che nessuno tra i futuristi della prima generazione possedeva basterebbe a rendere conto del fatto che tra di loro pochi furono coloro che vollero misurarsi con la settima arte e che tra i pochi che provarono a farlo i risultati tecnici ed estetici furono alquanto deludenti. Questa è una delle spiegazioni data per esempio da Clara Elizabeth Orban quando scrive “although Marinetti praised cinema in his manifestos, he was less confortable with it than with other media”[28]. Si può tuttavia dubitare della pertinenza di questa affermazione alla luce del fatto che negli anni dieci nessuno nell’incipiente industria cinematografica aveva acquisito la padronanza dei requisiti tecnici del nuovo linguaggio se non attraverso la pratica sul terreno e spesso una notevole capacità di improvvisazione e di inventivo dilettantismo, certo non tramite un apprendistato in scuole di cinematografia che sorgeranno solo molti decenni più tardi.
D’altronde non va sottovalutato il fatto che tra i futuristi troviamo varie personalità che nel campo della fotografia erano arrivate a considerevoli e innovativi risultati tecnici, come per esempio Anton Giulio Bragaglia, promotore del fotodinamismo, o i fratelli Ginna e Corra che avevano già fatto i primi esperimenti di cinepittura ancor prima del lancio ufficiale del movimento futurista. Nelle conversazioni di Mario Verdone con Ginna si legge la seguente testimonianza dell’ormai anziano regista delle difficoltà ma anche dell’avanzamento delle ricerche sperimentali:
Fin dal 1907 avevo capito le possibilità cinepittoriche del cinema, ma nel 1908-1909 non esisteva una macchina per fare riprese a tempo, un fotogramma per volta. “Pensai”, aggiunge, “di dipingere direttamente sulla pellicola. Feci venire pellicola vergine senza nitrato d'argento, sola celluloide e buchi, e dipingevo direttamente sulla pellicola. L'ottico Magini mi faceva venire la pellicola da fuori. Ma le case erano restie. 'Di che se ne fa?', si chiedevano[29].
Considerare poi la scarsa risonanza dei film fatti dai futuristi come il risultato della loro ignoranza degli aspetti commerciali e industriali del cinema è vero solo in parte. In realtà il futurismo beneficiò non poco del geniale senso pubbliciatario di Marinetti e il suo dominio dei nuovi media di comunicazione di massa. Settimelli e Corra, che due anni più tardi particeparanno alla regia di Vita Futurista, nel loro trattato sulla letteratura popolare Pesi, Misure e Prezzi del Genio Artistico pubblicato nel 1914 affermano “Il produttore delle forze artistiche creative deve partecipare alle strutture commerciali che sono il fondamento della vita moderna. Il danaro è uno dei punti di forza più straordinari e brutali della realtà in cui viviamo”[30]. Anche Anton Giulio Bragaglia aveva lavorato nel 1906 come assistente alla regia a Roma negli studios della Cines, società diretta dal padre Francesco uno dei primi industriali del cinema italiano, e al momento di rilasciare i tre film da lui girati nel 1916, da alcuni considerati di ispirazione futurista, egli possedeva una casa di distribuzione, la Novissima Film, che fece fallimento poco dopo, come molte altre case di produzione in Italia coinvolte dalla crisi della guerra. Tuttavia lo stesso Bragaglia in un’intervista accordata allo storico del cinema Mario Verdone indicava come causa del suo insuccesso il fatto che "tutto è asservito ai noleggiatori, portavoci del pubblico bruto e, tanto spesso, bestioni più del grosso pubblico stesso. Capii, per questo, che il cinema non era adatto alla mia indipendenza estrosa"[31]. Il riferimento è certamente tanto ai tumulti che ogni iniziativa futurista suscitava presso il pubblico, spesso cercandoli volontariamente, che alle reazioni della censura governativa che poteva esercitare un controllo più occhiuto che non su altre attività futuriste proprio sul materiale cinematografico, obbligato di visto e di permesso alla proiezione pubblica in un momento di particolare limitazione della libertà di espressione a causa del conflitto bellico in corso. Alla censura italiana si deve per esempio il taglio di circa il 20% del totale del film Vita Futurista, probabilmente per ragioni politiche, contenendo un episodio satirico antiaustriaco intitolato “Perché Cecco Beppe non muore”[32]. Anche il film Perfido Incanto di Bragaglia incappò nelle maglie della censura a causa di alcune scene considerate troppo orripilanti e di magia nera. Forse a questo si deve, secondo Lucia Re, che la première di Thaïs si tenne a Roma circa un anno dopo la conclusione della realizzazione del film[33].
Ma la responsabilità dell’insuccesso delle iniziative futuriste nel cinema non fu solo dovuta alla ristrettezza di vedute del pubblico di allora o alla censura ma anche e in gran parte al disprezzo dell’intellighenzia del tempo di ogni orientamento e fede (da Croce a Gramsci) nei confronti del cinema. “Cinematolatria” era un insulto che i critici del futurismo lanciavano contro gli italiani nel tentare di distinguersi da loro, e i futuristi italiani lo ritorcono contro i loro avversari[34]. Lucia Re parla di un pregiudizio futurista nei confronti del cinema considerato alla stregua di divertimento per donne[35]. In ogni caso indubbiamente i futuristi manifestarono quello che Aristarco definisce “sospetto aristocratico” per la retorica e per il gusto melodrammatico che essi trovavano nel cinema del loro tempo, che essi non esitarono a chiamare passatista[36]. Questo atteggiamento si rivela anche nella varietà di sintagmi da loro coniati quando parlano di cinema, quasi volessero nobilitare il cinema a contatto con forme artistiche più prestigiose: fotodinamica futurista di A.G. Bragaglia, cinepittura dei fratelli Corradini, poesie cinematografiche di Mario Scaparro e poemi visivi di Alfredo Masi, drammi plastici di Depero, o ancora cinema-sinfonia, termine che avrà notevole successo con Hans Richter e che verrà ripreso dai surrealisti che parleranno di symphonies visuelles.
Gli unici scrittori e intellettuali che nei primi anni del Novecento danno il loro contributo, non senza esitazioni, all’industria cinematografica sono avversari del futurismo, come i naturalisti Verga, Capuana e Gozzano, il decadente e simbolista D’Annunzio o ancora Pirandello. Tutto lascia pensare anzi che il diverso atteggiamento nei confronti del cinema sia uno degli elementi discriminanti tra futurismo e altri movimenti artistici più tradizionali. A questo proposito vale la pena notare che una delle prime riviste interamente dedicate di cinema pubblicate in Europa, Odiernismo, fondata nel 1914, porta come sottotitolo 'Quindicinale Antifuturista Letterario Cinematografico’[37].
Ma al di là di idiosincrasie a carattere personale o elitario del futurismo verso l’ultima delle arti, credo che la prevenzione di molti dei suoi esponenti principali nei confronti del cinema derivi dalle particolarità espressive del medium cinematografico che andavano contro quanto il gruppo giudato da Marinetti cercava di realizzare.
Due sono gli aspetti che allontanarono il futurismo dal cinema. Innanzitutto l’illusione di riproduzione realista che il cinema crea presso lo spettatore e il cui effetto è la base stessa della sua popolarità. In particolare è il modo in cui il cinema riproduce il movimento che costituisce il principale scoglio di questo medium per i futuristi. Una radicale differenza separa infatti a questo proposito il futurismo dal cubismo e che spiega in parte il fatto che l’avanguardia cinematografica europea trarrà ispirazione prevalentemente dall’insegnamento del cubismo che non da quello del futurismo. Mentre il cubismo infatti cerca di rappresentare oggetti statici da molteplici punti di vista, il futurismo è ancora legato al desiderio di riprodurre fasi diverse del movimento simultaneamente attraverso la percezione soggettiva dell’artista, una particolarità che gli deriva direttamente dall’esperienza impressionista, che invece il cubismo rigetta del tutto. I futurismo, contrario al determinismo meccanico dell’obbiettivo, cerca di rappresentare il movimento nell’immobilità come appare chiaramente nelle parole di Anton Giulio Bragaglia nel manifesto del fotodinamismo futurista del 1911. Egli si oppone all’idea di un cinema come arte banale del movimento e afferma il suo esclusivo interesse “in the area of movement which produces sensation, mermory of which still palpitates in our awereness”[38]. Il suo fotodinamismo si basa infatti sulla tecnica di ripresa che, tramite un tempo di apertura prolungato dell’otturatore, imprime sulla pellicola le traiettorie di un corpo in movimento. Gli antecedenti di questo atteggiamento vanno cercati quindi negli esperimenti di Etienne Jules Marey che tenta di sintetizzare in un’unica lastra movimenti successivi più che in quelli di Muybridge, in questo vero padre del cinema, che usa varie macchine fotografiche affiancate per scomporre il movimento di oggetto in varie fasi distinte. Non siamo insomma lontani dall’atteggiamento critico di Bergson nei confronti del cinema, da lui accusato di spazializzare il movimento e di non essere capace di renderne l’essenza fatta invece di durata. Per Boccioni, forse il più acerrimo e intransigente nemico del cinema tra i futuristi, il cinema fornisce solo volgari espedienti tecnici che catturano del movimento l’apparenza ma non l’essenza: “Avviso! Dalla l’ignoranza generale in materia d’arte, e per evitare equivoci, noi pittori futuristi dichiariamo che tutto ciò che si riferisce alla fotodinamica concerne esclusivamente delle innovazioni nel campo della fotografia. Tali ricerche puramente fotografiche non hanno assolutamente niente a che fare con il dinamismo plastico inventato da noi”.[39] Credo quindi che i futuristi avrebbero certamente sottoscritto a quando sostenuto da Robert Bresson a proposito dei problemi posti dal cinema all’artista:
The cinema falls between two stools. It cannot sublimate either the technique (photography) or the actors (whom it imitates as they are). Not absolutely realistic, because it is theatrical and conventional. Not absolutely theatrical and conventional because it is realistic[40].
Il futurismo infatti comincerà a capire l’importanza del cinema, ormai sorpassato da altri movimenti molto più consapevoli del cambiamento di prospettiva sul movimento, solo dopo la morte di Boccioni nel ‘16 e solo dopo essersi confrontato con il trauma della guerra, che secondo Paul Virilio è portatore di una nuova “logistica della percezione”[41]. Secondo Virilio, la possibilità di colpire oggetti e persone mentre il tiratore è egli stesso in movimento – elemento fondamentale della balistica della prima guerra mondiale – aumenta l’intensità dell’immagine, forzando i militare a focalizzare e a fissare la loro attenzione in modo differente dal passato. Le condizioni dell’automatizzazione della visione cominciano solo quando l’isolamento della visione è reso possibile da telescopi, occhi orizzontali e fuoco mirato che furono tra le principali innovazioni della guerra di trincea nel primo conflitto mondiale. Non a caso Marinetti mostrerà le prime timide e contraddittorie aperture nei confronti del cinema solo dopo il suo sorvolo aereo delle Libia nel 1912 e dalla possibilità concessagli dal comando militare italiano di percorrere le linee del fronte con un’autoblindo, la cui forma e la vista della realtà attraverso il mirino del mitragliatore non differisce molto da quella da lui descritta in Alcova d’acciaio, memorie dell’ultimo anno della prima guerra mondiale e fa pensare al recente film di guerra israeliano Levanon[42].
Ma accanto alla diffidenza dei futuristi per il carattere realista del cinema e per la sua resa tecnica del movimento credo si debba menzionare una terza caratteristica del medium cinematografico per cogliere appieno la divergenza estrema tra estetica futurista e cinema. Per questo occorre far riferimento alla prima parte del testo del sociologo dei media canadese McLuhan, Undestanding Media, in cui si fa la distinzione tra “hot” e “cool media” [43]. Un medium di comunicazione è definito caldo o freddo in base al differente grado di partecipazione richiesta a chi ne usufruisce. I comics, per esempio, sono un medium espressivo freddo a causa dello sforzo interpretativo del lettore, mentre il cinema è un esempio di medium caldo in quando non esige dallo spettatore alcuno sforzo per usufruirne. Un medium caldo come il cinema non stimola che il senso della vista e pone lo spettatore in una posizione passiva di fronte all’immagine che scorre. Il cinema come altri esempi di media caldi favoriscono la precisione analitica, l’ordine sequenziale e la logica narrativa lineare, esattamente il contrario di quanto i futuristi speravano di realizzare coinvolgendo gli spettatori nelle loro performances e fornendo loro un’esperienza plurisensoriale. Al futurismo non può piacere un’arte che mostra quel che si vede, in quanto interessato appunto ad andare oltre la visione. La rivoluzione futurista è per l’appunto sonora, olfattiva, tattile e nel visivo cerca l’astrazione. I futuristi rigettano per ragioni ideologiche, estetiche e pregiudiziali gli effetti che l’apparizione del cinema introduce nella configurazione mediatica del primo Novecento. Riprendendo la famosa tetrade di Marshall McLuhan, cerchiamo di vedere in che modo il cinema modifica il panorama mediatico dell’epoca. Alla domanda McLuhaniana “what the new medium enhances”? possiamo constatare che il cinema rafforza la cultura visiva a scapito della cultura acustica, rappresentata per esempio dalla radiofonia che Marinetti prediligeva come mezzo di trasmissione delle sue idee durante tutta la sua carriera artistica; alla domanda “what the new medium drives out of prominence”? vediamo che il cinema rende obsolete la pittura e la fotografia, discipline in seno alle quale si erano formati i principali protagonisti del futurismo; alla domanda “what the new medium retrieves”? si nota che il cinema riporta in auge la cultura borghese dell’Ottocento, che i futuristi aborrivano; e infine alla domanda “what the new medium reverses?” è chiaro che il cinema esaspera il realismo che le nuove tecnologie sembrano solo in apparenza mettere in crisi. L’incapacità e il rifiuto di misurarsi con la specificità del nuovo mezzo di espressione artistica va quindi attribuita al pregiudizio tradizionale che l’arte è essenzialmente unica e che tra tutte le espressioni artistiche diverse sia possibile stabilire un parallelismo, cosa che con l’apparizione del cinema non è più possibile sostenere senza appiattire il discorso a semplici wishful thinking e alla nostalgia di un’idea di Gesammtkunstwerk del tardo romanticismo e quindi di un’epoca ormai sorpassata.
Da quanto precede dovrebbe ormai essere chiaro come il futurismo abbia inteso sovvertire le forme tradizionali di espressione artistica ma senza riuscire a comprendere le sfide artistiche che le nuove tecniche di espressione cinematografica aprivano. Pertanto, al di là dei furori distruttivi, i futuristi furono in fin dei conti assai sospettosi nei confronti delle principali innovazioni tecnologiche che riguardarono il cinema nel corso della prima metà del Novecento[44]. Nel manifesto della radio futurista del 1933 Marinetti dichiara addirittura che il cinema è morto, preferendo attenersi a un atteggiamento iconoclastico piuttosto che propositvio.
Il cinema futurista, o meglio l’assenza di un cinema futurista, non è quindi soltanto un’incidente o un fatto marginale nella storia del movimento, ma ne mette in evidenza le ingenuità, le incoerenze e soprattutto il fatto che al di là delle dichiarazioni di rottura col passato e persino col presente, il futurismo condivide con movimenti contemporanei da lui criticati molto di più di quanto si possa credere a primo acchito, dimostrando profonde affinità in particolare con l’ermetismo, il decadentismo e il simbolismo dannunziano (Marinetti cominciò la sua carriera letteraria come poeta simbolista e Ricciotto Canudo lavorò alla trasposizioni di sei pieces di Dannunzio al cinema). Molti sono i motivi e i presupposti comuni a tutta una temperie intellettuale volta verso l’irrazionalismo, ragion per cui la confluenza nel fascismo di queste tre componenti del panorama culturale italiano (e non solo italiano basti pensare al percorso di Ezra Pound) dell’anteguerra non sorprende, come mostrato lucidamente da un testo oggi poco studiato di Luckacs Zerstörung der Vernunft[45]. Il futurismo è per questo atteggiamento conservatore a mio avviso molto più vicino all’impressionismo e ai movimenti artistici di fine Ottocento la cui influenza cominciava solo ai primi del Novecento a farsi sentire nella piu provinciale Italia, appartata dal progresso della civiltà industriale e da essa abbacinato ma anche un po’ intimidito, che ad altri movimenti d’avanguardia come il cubismo o il dadaismo, impegnati in un discorso teorico di maggior spessore intellettuale e alla ricerca di un’astrazione a cui il futurismo non giunse mai, pur essendo durato rispetto ad altri movimenti artistici dell’epoca un periodo molto più lungo[46].
[1] I principali filosofi italiani, da Croce a Gramsci, non mancarono fin dall’inizio di stigmatizzare le “contraddizioni” e l’irrazionalismo del futurismo. Su questo argomento si veda l’articolo di Salvatore Cingari e Marco Di Cosimo in questo volume e anche Marc Focking, “Reden, Schweigen, Schreiben. Sprachvertrauen und Sprachkritik in der italienischen Lyrik des frühen 20.Jahrhunderts (D’Annunzio, Gozzano, Marinetti)”, in Manfred Lentzen (ed.), Aspekte der italienischen Lyrik des 20.Jahrhunderts, Rheinfelden/Berlin: Schäuble 1996, pp. 5-22.
[2] Così per esempio il volume della curatrice delle principali mostre consacrate ai cent’anni del futurismo a Roma e a Parigi non tratta affatto della questione cinema e futurismo. Ester Coen, Futurismo, Firenze: Giunti, 2009. La situazione non è molto diversa se si sfogliano i testi pubblicati in concomitanza con le celebrazioni di vari anniversari futuristi dove al cinema futurista sono riservati saltuari riferimenti, relegato nei capitoli di fondo o del tutto trascurato. Basti citare tra le più recenti opere di riferimento Richard Humphries, Futurism, London: Tate Gallery, 1999; Giovanni Lista, Futurism, Paris : Terrail, 2001; Sabrina Carollo, I futuristi, Firenze: Giunti, 2004.
[3] I lavori più importanti da questo punto di vista sono quelli di Wanda Strauven, Marinetti e il cinema. Tra attrazione e sperimentazione, Udine: Campanotto Editore, 2006 e di Giovanni Lista, Il cinema futurista, Genova: Le Mani, 2010.
[4] Tanto per fare un esempio scrive Sabrina Carollo, op. cit., p. 100 che “è proprio il cinema la naturale prosecuzione degli studi futuristi” e poco più avanti “il cinema rappresenta la perfetta sintesi della filosofia del movimento”.
[5]John P. Welle, “Film on Paper: Early Italian Cinema Literature, 1907-1920”, Film History, vol. 12, 2000, pp. 288-299.
[6] Il primo libro di teoria cinematografica pubblicato in Italia è quello di un personaggio vicino al futurismo, Sebastiano Arturo Luciani, Verso una nuova arte: il cinematografo, Roma: edizioni della cometa, 1920. La definizione del cinema come settima arte viene coniata dal francese di origine italiana Ricciotto Canudo, vicino al movimento futurista.
[7] I testi dei diversi manifesti futuristi, da cui sono tratte le citazioni in questo articolo, sono consultabili nella recente edizione a cura di Viviana Birolli, Manifesti del Futurismo, Milano: Hoepli, 2008 e in inglese nella traduzione di Victoria Nes Kirby nel volume Michael Kirby, Futurist Performance with Manifestos and Playscripts, New York: Dutton, 1971.
[8] Nel Manifesto dell’undici maggio Distruzione della sintassi, immaginazione senza fili, parole in libertà.
[9] Luigi Colagreco, “Il cinema negli spettacoli di Fregoli”, Bianco e Nero, vol. 63, 2002; Wanda Streuven, “From ‘Primitive Cinema’ to ‘Marvelous’”, in W. Streuven (ed.), The Cinema of Attraction Reloaded, Amsterdam: Amsterdam University Press, 2006, pp. 105-121.
[10] Questo atteggiamento si ritrova per esempio nel libro Futurismo: i grandi temi, a cura di Enrico Crispolti e Franco Sborgi, Milano: Mazzotta, 1998.
[11] F.T. Marinetti, “La cinematografia astratta è un’invenzione italiana”, L’impero, 1 dicembre, 1926, articolo poi ripubblicato con leggere varianti in Vetrina Futurista, giugno, 1927 . Il testo è raccolto in Gianni Rondolino, Il cinema astratto. Testi e documenti, Torino: Tirrenia stampatori, 1977, pp. 131-144.
[12] A. M. Ripellino, Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia, Torino: Einaudi, 1959, p. 242.
[13] Mario Verdone & Gunther Berghaus, “Vita Futurista and Early Futurist Cinema”, in Gunther Berghaus (ed.), International Futurism in Arts and Literature, Berlin: DeGruyter, 2000, p. 404.
[14] Peter Bondanella, Italian Cinema: from Neorealism to Present, New York: Continuum, 2007, p. 9.
[15] Sull’influenza esercitata dal futurismo sulle avanguardie cinematografiche di altri paesi si veda tra l’altro: Dominique Noguez, “Dal futurismo all’underground”, Filmcritica, vol. 25, 1974; Martin F. Norden, “The Avant-Garde Cinema of the 1920s: Connections to Futurism, Precisionism, and Suprematism”, Leonardo, vol. 17, 1984, pp. 108-112; Carlos García Brusco, “El futurismo y las vanguardias cinematograficas”, in Historia y Vida, vol. 21, 1988, pp. 40-51; Sonia Villegas, “La influencia del futurismo italiano en el cine sovietico: de Mayakovsky a la FEKS”, Film-Historia, vol. 7, 1997, pp. 13-28; Germano Celant and Gianfranco Maraniello, Vertigo: A Century of Multimedia Art from Futurism to the Web, Milano: Skira, 2008.
[16] Escludiamo quindi dalla presente rassegna film degli anni venti e trenta in cui si possono ravvisare influenze o riferimenti futuristi, come per esempio il film di Walter Ruttmann Acciaio del 1933 su cui Irmbert Schenk, “Acciaio, el filme italiano de Walter Ruttmann: un experimento entre el futurismo, el realismo y el fascismo”, Archivos de la Filmoteca, vol. 45, 2003, come il film Velocità sul quale si rimanda a Giovanni Lista, “Futurismo cinematografico: il film ‘Velocità’ di Cordero, Martina, Oriani”, Fotogenia, vol. 4-5, 1997-1998, o alcune scene con effetti ottici di girandola nel film di Mario Camerini, Gli uomini che mascalzoni del 1932. Neppure si tratterà dei progetti non realizzati come quelli di Prampolini annunciati nel 1929 al congresso di cinema indipendente di La Sarraz in Svizzera, quello di Corra e Marinetti di fare un film intitolato le mani, o ancora la sceneggiatura, recentemente scoperta da Lista, di un film progettato da Marinetti nel 1917 “Un inedito marinettiano: 'Velocità’, film futurista”, Fotogenia, vol. 2, 1996-1997, pp. 15-25, 6-13, 143-147. Niente di cinematografico ha invece il romanzo di Paolo Buzzi, L'ellisse e la spirale. Film + parole in libertà, Milano: edizioni futuriste di poesia, 1915.
[17] Tutte le descrizioni del contenuto del film derivano dall’articolo di Mario Verdone, “Ginna e Corra. Cinema e letteratura del futurismo”, Bianco e Nero, vol. 28, 1967, pubblicato in veste monografica l’anno successivo sotto il titolo Cinema e letteratura del futurismo, Roma: edizioni di Bianco e Nero, 1968 e ristampato a dalle edizioni Manfrini di Rovereto nel 1990.
[18] Millicent Marcus, “Anton Giulio Bragaglia’s Thaïs or, The Death of the Diva + the Rise of the scenoplastica = The Birth of Futurist Cinema”, South Central Review, vol. 13, 1996, pp. 63-81; Lucia Re, “Futurism, Film and the Return of the Repressed: Learning from Thaïs”, MLN, vol. 123, 2008, pp. 125-150.
[19] Lucia Re, ibid., p. 146.
[20] Una descrizione di questi film nel saggio sulla musica cromatica di Bruno Corra nel volume di Enrico Thovez, Il pastore, il gregge e la zampogna, Bologna: Beltrami, 1912.
[21] Su questo personaggio, autore di comics e di strisce pubblicitarie, si veda Katia Pizzi, “"L'intuizione del fantastico": Antonio Rubino, Futurist Manqué”, The Modern Language Review, vol. 94, 1999, pp. 395-408.
[22] Gian Piero Brunetta, History of Italian Cinema, op. cit., p. 56.
[23] Luigi Malerba & Carmine Siniscalco, Cinquant’anni di cinema italiano, Roma: Bestetti, 1954, p. 27.
[24] Come accade nel peraltro pregevole lavoro di sintesi di decenni di ricerche originali di Giovanni Lista, Il cinema futurista, Genova: Le Mani, 2010. Lista sostiene che gli esempi di cinema di ispirazione futurista furono molto più numerosi di quanto generalmente ammesso – egli ne conta 85 -, ma per dimostrare la sua tesi egli include film di autori che non appartennero ufficialmente al movimento, che egli designa con il nome ambiguo di ‘futuristi indipendenti’, aggiungendo poi commedie popolari e ogni sorta di film di fantascienzai e di animazione, per lo più realizzati negli anni venti e trenta, che col futurismo come movimento storico ben definito, hanno poco a che fare.
[25] Brunetta, p. 56
[26] Wanda Streuven, “S/M”, in Jaap Kooijman, Patricia Pisters, Wanda Strauven (eds.), Mind the Screen: Media Concepts according to Thomas Elsaesser, Amsterdam: Amsterdam University Press, 2008, p. 278.
[27] Giovanni Lista, Cinema e fotografia futurista, Milano: Skyra, 2001, pp. 21, 281.
[28] Clara Elizabeth Orban, The Culture of Fragments: Words and Images in Futurism and Surrealism, Amsterdam: Rodopi, 1997, p. 155.
[29] MarioVerdone, Cinema e letteratura del futurismo, Roma: Ed. Bianco e Nero, 1968, p. 27.
[30] Citato da John Welle nel suo intervento dal titolo Reading ‘Divismo’: Bruno Corra’s Forgotten Film Novel, ‘Io ti amo’, Commercial Literature, and Celebrity Culture al convegno internazionale tenutosi all’università di Utrecht tra il 1 e il 3 dicembre 2009 Futurism: Precursors, Protagonists, Legacies.
[31] Mario Verdone, “Anton Giulio Bragaglia”, in Bianco e Nero, 1965, p. 69 (citato da Millicent Marcus, op. cit., p.80).
[32] Cf. Michael Kirby, Futurist Performance with Manifestos and Playscripts, New York: Dutton, 1971, pp. 123, 136.
[33] Lucia Re, op. cit., p. 127
[34] Edward Aiken, “The Cinema and Italian Futurist Painting”, Art Journal, vol. 41, 1981, pp. 353-357.
[35] Lucia Re, op. cit., p. 136. Anche Lynne Kirby, “From Marinetti to Vertov: Woman on the Track of Avant-garde Representation”, Quarterly Review of Film Studies, vol. 10, 1989.
[36] Guido Aristarco, “Sospetti aristocratici di pittori futuristi”, in Cinema nuovo, vol. 32, 1983, pp. 284-285.
[37] John P. Welle, “Film on Paper: Early Italian Cinema Literature, 1907-1920”, Film History, vol. 12, 2000, p. 291.
[38] C. Tisdall & A. Bozzola, Futurism, p. 138. Vedi anche la tesi di Ariela Harel, התנועה באסכולה הפוטוריסטית 1909-1915: מעבדת מחקר לבחינת מובניה של התנועה ודרכי עיצובה בתולדות האמנות הפלסטית (Movement in the Futurist School), Jerusalem 1971.
[39] Citato in Tisdall & Bozzola, Futurism, p. 140. Su Boccioni e il cinema cf. Edward Aiken, “The Cinema and Italian Futurism Painting”, Art Journal, vol. 41, 1981, pp.353-357.
[40] Robert Bresson, Notes on Cinematography, New York : Urizen Books, 1977, p. 38.
[41] Paul Virilio, Guerre et cinema: Logistique de la perception, Paris: Editions de l'Etoile, 1984.
[42] F.T. Marinetti, Alcova d’acciaio, Milano: Vitigliano, 1921.
[43] M. McLuhan, Understanding media: the extensions of man, New York : New American Library, 1964.
[44] Su questo tema si veda Daniel Lindvall, “Futurist Fears of the Machine”, Film International, vol. 3, 2003.
[45] G. Lukacs, Zerstörung der Vernunft, Berlin, 1954.
[46] Apollinaire già nel 1912 scrive : “The originality of the Futurist school of painting is that it wants to reproduce movement. That is a perfectly legitimate subject of investigation, but French painters solved that problem, insofar it can be solved, simply ages ago”. In Giovanni Lista, Futurism, op. cit., p. 66.
Asher Salah, Ph.D. in letteratura ebraica è docente presso l’Accademia Bezalel di Belle Arti a Gerusalemme. Ha pubblicato numerosi saggi sulla letteratura degli ebrei in Italia nel secolo dei Lumi e sul cinema. Tra le sue pubblicazioni più recenti in quest’ultimo ambito “Lo Stato d’Israele nell’immaginario cinematografico italiano”, in Marcella Simoni & Arturo Marzano (eds.), Roma e Gerusalemme. Israele nella vita politica e culturale italiana (1949-2009), Genova: ECIG, 2010, pp. 75-96; “Il cinema israeliano di animazione”, in Maurizio De Bonis, Ariel Schweitzer, Giovanni Spagnoletti (eds.), Il cinema israeliano contemporaneo, Venezia: Marsilio, 2009, pp. 195-206; “Tradizione e modernità nel cinema israeliano”, in David Bidussa & Michele Luzzatto (eds.), Ebraismo, Torino: Einaudi, 2008, pp. 326-353